Una operazione verità, convocando una fase costituente con l’obiettivo di fondare un nuovo sistema economico nell’area dei Paesi che aderiscono all’euro. E’ l’appello lanciato da alcuni economisti italiani e raccolto da tantissimi loro colleghi. Per gli economisti, da Romano Prodi a Gustavo Piga, da Mario Baldassarri a Michele Fratianni, il problema di Eurolandia è strutturale: “In questa fase di declino – si legge nell’appello rivolto al premier Matteo Renzi quale presidente di turno del semestre europeo – mentre la situazione macroeconomica è profondamente cambiata, l’Ue continua a essere nelle mani di funzionari-vigili che applicano un codice della strada obsoleto. Bisogna scrivere nuove regole e non possono certo farlo i vigili”.
Una esortazione fatta propria dal segretario generale della CNA, Sergio Silvestrini, che dichiara: “Pieno appoggio alla petizione degli economisti italiani per rilanciare l’Eurozona. La crescita è la priorità. Dopo otto anni di crisi, il tempo delle mezze misure è finito. E’ il momento di cure drastiche. Lo dobbiamo agli artigiani, ai piccoli imprenditori, ai milioni di disoccupati, alle giovani generazioni. L’euro non è in discussione. Sono da rottamare, invece, rigidità, egoismi nazionali e burocrazie autoreferenziali”.
Ed ecco il testo dell’appello.
La decisione dell’attuale presidente francese Francois Hollande di ignorare i vincoli di bilancio europei, annunciando di voler rimandare il ritorno del rapporto deficit/PIL sotto il 3% di due anni potrebbe mettere la parola fine al sistema dell’austerità europea fondato sul Fiscal Impact. La decisione della Francia non fa che sancire uno stato di crisi del sistema (e una violazione diffusa delle regole) che perdura da tempo. I Paesi sopra il tre percento nella UE sono molti (oltre alla Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Croazia, Slovenia e persino la virtuosa Polonia) e la Germania da tempo viola il limite superiore del surplus di bilancia commerciale. Alcuni dei Paesi in deficit, nonostante si siano sottomessi alla ricetta rigorista (anzi proprio a causa di essa), si trovano oggi con i conti pericolosamente fuori controllo e con un rapporto debito/PIL in forte crescita tendenziale. E’ questa la situazione di Grecia, Spagna, Portogallo ma anche dell’Italia. E la colpa non è soltanto quella dell’errore nelle ricette nazionali ed europee applicate, ma anche del fallimento, da parte della BCE (nonostante i suoi meriti nel salvataggio dell’euro nella tempesta speculativa), dell’obiettivo di evitare la deflazione e garantire un’inflazione attorno al 2%.
In generale, è tutta la politica post-crisi finanziaria globale dell’UE che è fallita producendo un buco nella domanda aggregata (consumi più investimenti), l’arresto della crescita, la deflazione, l’approfondirsi degli squilibri tra Nord e Sud e, paradossalmente, un peggioramento della situazione del debito, che rappresentava l’ossessione e la ragione della severità della terapia del rigore.
Il problema di questa fase di declino è che mentre la situazione macroeconomica è profondamente cambiata, l’UE continua ad essere nella mano di solerti funzionari-vigili che applicano un codice della strada obsoleto. Non si tratta dunque di dare pagelle a chi rispetta più o meno le regole di questo codice. Bisogna scrivere nuove regole e non possono certo farlo i vigili. Ci aspettiamo pertanto che il governo italiano capisca la gravità del momento e non si accontenti di negoziare deroghe, ma proponga con forza un momento di verità, chiedendo la convocazione di una conferenza per una nuova “macroeconomia civile” nell‘Unione Europea. I temi fondamentali di discussione su cui costruire un nuovo accordo dovrebbero essere i seguenti:
1) un ruolo molto più attivo della BCE sul modello di quanto fatto dalle banche centrali di Stati Uniti e Regno Unito che si spinga fino alle politiche di acquisto di titoli pubblici e privati;
2) è inutile costruire un’unione monetaria se non si sfrutta e capitalizza appieno il potere della sua banca centrale che è potenzialmente superiore a quello delle banche centrali nazionali. Da questo punto di vista, si dovrebbero seriamente discutere progetti come il piano PADRE (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone) proposto da Wyplosz, che prevede un’operazione di ristrutturazione dei debiti dei Paesi membri dove la BCE ne acquista la quota eccedente il 60% convertendola in titoli senza interesse che saranno ripagati, negli anni, dalle risorse da signoraggio spettanti a ciascun Paese, liberando di fatto importanti risorse oggi destinate al pagamento degli interessi e producendo un formidabile stimolo alla domanda interna di tutti i Paesi. Con vantaggi per tutti, Germania inclusa, che vedrebbe aumentare l’acquisto dei propri beni importati dagli altri paesi membri. Piani di questo tipo potrebbero essere avviati in via sperimentale su porzioni più piccole dei debiti pubblici per verificarne gli effetti;
3) a fronte di questi vantaggi macroeconomici, i Paesi membri devono essere posti nelle condizioni di poter realizzare riforme di struttura sui principali assi di modernizzazione delle loro economie (infrastrutture digitali, politica industriale e di innovazione tecnologica ed organizzativa del lavoro, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione e della amministrazione della giustizia, protezione sociale per coloro che sono esclusi dal lavoro, contrasto alle disuguaglianze economiche e sociali divenute insostenibili e che compromettono la crescita dei sistemi economici). La realizzazione di queste riforme di struttura è essenziale per accrescere i benefici di cui al punto i) e ii) e deve essere portata avanti seguendo gli stimoli provenienti dall’Europa, ma attraverso un processo di scelta democratica interno a ciascun paese membro;
4) si proceda nel frattempo alla costruzione di meccanismi in grado di contrastare le asimmetrie dell’area euro. In primis, penalità non solo per Paesi in deficit ma anche per Paesi in surplus con obbligo a realizzare politiche di rilancio della domanda interna per contrastare le asimmetrie. In secondo luogo, un sussidio europeo di disoccupazione come forma di stabilizzatore automatico che preveda in cambio prestazioni sociali o formazione per la rioccupazione per i beneficiari e sospensione in caso di non accettazione di posto di lavoro;
5) varo di una concreta e non solo annunciata politica fiscale UE espansiva, per realizzare su scala europea investimenti pubblici e realizzare infrastrutture fisiche e digitali nei Paesi membri, puntando ad un bilancio comunitario con risorse proprie ben oltre l’1% attuale (tra il 3% ed il 5%);
6) un forte impegno verso l’armonizzazione fiscale e la riduzione delle forchette eccessive nelle aliquote nazionali sulle imprese che producono elusione fiscale ed spostamento dei profitti alterando le stesse statistiche sulla crescita. Paradisi fiscali interni all’Unione non potranno essere più tollerati e le pratiche più aggressive andranno considerate alla stregua di aiuti di Stato (come sembra iniziare ad essere l’orientamento comunitario in alcuni recentissimi casi);
7) un forte impegno verso forme di unificazione politica e di partecipazione attiva dei cittadini europei alla nomina democratica dei propri rappresentanti nelle istituzioni europee non più esclusivamente su base nazionale, in maniera tale che il benessere di tutti i cittadini europei e non dei cittadini di ciascun Paese membro sia posto al centro del processo decisionale in sede europea.
Un libro dei sogni? No. Piuttosto l’unica direzione di marcia possibile nell’interesse di tutti, per realizzare crescita e sostenibilità e arrestare la rotta di collisione che porterebbe inevitabilmente all’aggravarsi degli attuali squilibri ed alla fine cruenta dell’euro. Meglio che i leader europei facciano un’operazione di verità convocando una fase costituente, con l’obiettivo di realizzare un sistema nuovo fondato su questi sette punti. La mancanza di un accordo porterebbe quasi inevitabilmente alla fine dell’euro e al ritorno alle valute nazionali.