Il prelievo non è di oggi. Dalla Tarsu alla Tia, dalla Tares alla Tari, la storia non cambia. Molti Comuni continuano a chiedere soldi anche sui rifiuti speciali che le imprese smaltiscono tramite i circuiti di raccolta privata, in maniera ecologicamente corretta e coerente con i principi comunitari. E’ dunque diffusa l’applicazione illegittima della Tari, il tributo destinato a coprire le spese sostenute dalle amministrazioni municipali per il servizio pubblico di raccolta dei rifiuti. Tributo trasformato in un bancomat per i Comuni che il sistema produttivo è costretto ad alimentare.
A denunciarlo, è la CNA, che ha stimato in un miliardo di euro le tasse pagate in Italia dalle imprese, nel solo 2015, su rifiuti già avviati allo smaltimento.
Negli anni non sono mancati gli interventi, ma le maglie troppo larghe hanno permesso ai Comuni di continuare ad agire arbitrariamente. “Anche nei nostri territori”, precisa Luigia Melaragni, segretaria della CNA di Viterbo e Civitavecchia.
La stessa Legge di Stabilità 2014, che ha istituito la Tari, è contraddittoria. Da un lato, esclude dal tributo i rifiuti che il produttore dimostri di avere avviato al recupero. Dall’altro, prevede che i Comuni possano ridurre la tariffa in proporzione alla quantità di rifiuti che i produttori hanno avviato al recupero. Ri-affermando, così, l’esistenza del doppio tributo. Neanche il successivo intervento del ministero dell’Economia è servito a risolvere il problema.
“Bene ha fatto la CNA a rilevare l’illegittimità dell’imposizione da parte dei Comuni e a chiedere un nuovo intervento normativo”, osserva Melaragni. E’ necessario impedire, espressamente, l’applicazione del tributo ai rifiuti smaltiti dal produttore. E obbligare gli Enti locali a tenere conto della Direttiva quadro europea che pone il riutilizzo, riciclo e recupero come prioritario nella gerarchia dello smaltimento dei rifiuti e prevede il conferimento in discarica solo come ultima ipotesi.