“Apprendiamo che le imprese di restauro di beni culturali, inquadrate principalmente con il codice Ateco 90.03.02, non sono tra quelle che possono tornare al lavoro il 4 maggio. Ciò cozza contro ogni logica, poiché si tratta, nella maggioranza, di attività che si svolgono in cantiere o in laboratorio, senza alcun contatto con il pubblico, generalmente con un numero ridotto di addetti per ciascuna unità produttiva e con amplissime possibilità di distanziamento sociale. Il rischio di trasmissione del virus Covid-19 risulta analogo, se non inferiore, a quello dei cantieri edili e, aggiungiamo, di molte attività industriali la cui riapertura è invece consentita dal nuovo decreto del presidente del Consiglio”. I restauratori della CNA manifestano incredulità e indignazione per quella che appare “una superficialità, una approssimazione nell’elaborazione delle scelte tecnico-politiche sulla cui base si sta procedendo” e chiedono la immediata rettifica dell’allegato 3 al decreto, con l’inserimento delle aziende di conservazione e restauro di beni culturali tra quelle autorizzate a riprendere le attività il 4 maggio.
“L’errore – secondo la CNA – è stato compiuto dalla Commissione Tecnico Scientifica, che nel documento pubblicato il 23 aprile ha assegnato al codice Ateco 90 un livello di rischio 4 ovvero di ‘probabilità alta’ (lavoro effettuato in stretta prossimità con altri per la maggior parte del tempo), senza verificare la specificità dell’attività di restauratore, simile a quella del cantiere edile, visto peraltro che i restauratori applicano ai dipendenti il contratto collettivo nazionale dell’edilizia”.
“Non è infatti la generica appartenenza al cluster di codifica Ateco 90, all’interno del quale sono classificate moltissime attività legate alla cultura, che identifica il tipo di attività economica e le caratteristiche dei suoi processi produttivi ai fini del rischio di contagio”, sottolinea l’Associazione.
“I nostri restauratori, come del resto l’intero comparto artigiano, hanno finora aderito, con grande senso di responsabilità, allo sforzo collettivo per il bene comune, sacrificando quote significative dei propri mezzi di sussistenza, ma il permanere del fermo sanitario per le proprie attività produttive appare adesso incomprensibile e assurdamente discriminatorio – è anche la posizione della CNA di Viterbo e Civitavecchia -. Esso andrà ad aggravare ulteriormente la già difficile situazione economica del comparto, a pesare sui conti pubblici e sul bilancio degli ammortizzatori sociali, per di più senza che ciò rechi benefici alla collettività”.